Il revenge porn

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A cura dell’ Avv.  Lara Andrea Rigamonti

In questi giorni si è parlato moltissimo di revenge porn, in relazione a due fatti di cronaca: la maestra d’asilo licenziata in seguito alla diffusione di un suo video da parte dell’ex fidanzato e l’hackeraggio del cloud di una soubrette con diffusione di alcuni suoi video intimi. Nello scorso mese di marzo, invece, si era parlato di tale fattispecie di reato in seguito ad un’inchiesta condotta dalla testata Wired Italia, tramite la quale si erano scoperte chat sul social network Telegram composte da più di 40.000 iscritti ove, quotidianamente, venivano scambiati più di 30.000 messaggi contenenti foto e video erotici e sessuali pubblicati senza il consenso dei soggetti ritratti e, in molti casi,contenti materiali di carattere pedopornografico. L’iscrizione a tali gruppi sui social network sovente ingenera nei partecipanti una sorta di senso di impunità, che sarebbe garantita dall’anonimato, nonché dalla crittografia end-to-end (la comunicazione è leggibile solo dalle persone che vi partecipano). Quando i responsabili vengono individuati, possono incorrere in gravi imputazioni e, conseguentemente, subire un processo penale.

La Legge n. 69 del 19 luglio 2019 (pubblicata in Gazzetta Ufficiale in data 25 luglio 2019), denominata Codice Rosso, ha innovato e modificato la disciplina penale della violenza domestica e di genere, introducendo inasprimenti di sanzione nonché nuove fattispecie di reato. In particolare, il Codice Rosso ha inserito nel nostro Codice Penale

l’art. 612ter rubricato “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”, reato prontamente ribattezzato dai media con il neologismo “revenge porn”.

Le fattispecie base puniscono – salvo che il fatto non costituisca più grave reato, con la pena da 1 a 6 anni di reclusione e la multa da € 5.000 ad € 15.000 – chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate ovvero chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video, di cui al primo comma, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento.

Il Legislatore utilizzando l’espressione contenuto sessualmente esplicito ha inteso creare una fattispecie che sia in grado di adattarsi all’evoluzione ed ai valori culturali della società di riferimento.

Altro elemento costitutivo della fattispecie ex art. 612 ter c.p. è la mancanza del consenso della vittima; consenso che, per essere validamente espresso, deve essere manifesto, libero, attuale nonché prestato da persona con capacità di intendere e di volere (non vale, infatti, a scriminare – a togliere, dunque, rilevanza penale – la condotta il consenso prestato dal minorenne, dall’interdetto ovvero dall’inabilitato o, ancora, il consenso di una persona in ridotto stato di capacità per malattia ovvero per abuso di sostanze stupefacenti o alcoliche).

L’elemento soggettivo (ossia, l’attitudine psicologica con sui si commette l’azione) richiesto ai fini dell’integrazione del reato è il dolo generico, cioè l’autore del reato agisce rappresentandosi e volendo realizzare la condotta descritta dalla norma.

 

Il secondo comma, poi, estende la punibilità in capo a coloro i quali – non originariamente nella disponibilità del materiale dal contenuto sessualmente esplicito – collaborano nella propagazione di tale materiale. In questo caso, l’elemento soggettivo richiesto è il dolo specifico: in questo caso il soggetto attivo agisce spinto dalla volontà di raggiungere un determinato fine, che consiste nella volontà di arrecare nocumento alla persona offesa.

Con nocumento la giurisprudenza di legittimità intende “un pregiudizio giuridicamente rilevante di qualsiasi natura, patrimoniale e non, cagionato sia alla persona alla quale i dati illecitamente trattatisi riferiscono sia a terzi quale conseguenza della condotta illecita” (Cassazione, Sezione III Penale, Sentenza n. 15221 del 23 novembre 2016).

L’art. 612 ter c.p. è un reato plurioffensivo inserendosi nel compendio legislativo volto a contrastare la c.d. violenza di genere; i beni giuridici protetti dalla fattispecie in parola sono la libertà di autodeterminazione dell’individuo – con riferimento al decoro, alla reputazione – la libertà personale nonché il diritto alla riservatezza della propria sfera sessuale.

Accanto alle fattispecie base sono previste due fattispecie aggravate.

Il comma terzo dell’art. 612 ter c.p. prevede una aggravante ad effetto comune (che comporta l’aumento di un terzo della pena) qualora il reato sia commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici.

Viene dunque introdotta la c.d. aggravante social: la condotta è aggravata qualora la diffusione del materiale contenuto sessualmente esplicito venga effettuata tramite, ad esempio, i social network (considerato l’utilizzo massiccio di tali strumenti e la previsione normativa ad hoc è agevole pensare che l’integrazione del reato sarà, nella quasi totalità dei casi, nella forma aggravata).

Il comma quarto, invece, prevede un’aggravante ad effetto speciale (che comporta l’aumento della pena da un terzo alla metà) nell’ipotesi in cui i fatti siano commessi in danno di persona fisica in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza. Lo stato di inferiorità fisica o psichica si caratterizza per una sostanziale differenza di potere tra autore e vittima del reato. In particolare, l’abuso della condizione di inferiorità psichica può ben prescindere da patologie mentali e può invece ricondursi ai casi di vittima minore di età ovvero ai casi di abuso di sostanze stupefacenti o alcoliche o, ancora, nelle ipotesi in cui l’autore del reato sfrutti a proprio vantaggio particolari condizioni di vulnerabilità della vittima, senza la necessità di condotte intimidatorie.

La norma si chiude – ricalcando le previsioni già effettuate per il reato di c.d. stalking – con le condizioni di procedibilità. Il delitto in parola è punito a querela della persona offesa ed il termine per la proposizione viene fissato in sei mesi; la remissione può essere soltanto processuale. Si procede d’ufficio, invece, nelle ipotesi di cui al quarto comma ovvero nelle ipotesi in cui il reato sia connesso con altro delitto per il quale è prevista la perseguibilità d’ufficio.